Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

martedì 14 ottobre 2008

"L'anello di Re Salomone" di Konrad Lorenz: eutanasia e umiltà

L'anello di Re Salomone, il Classico dei Classici dell'etologia e in genere della divulgazione scientifica del Novecento, non avrebbe e non ha invero bisogno di presentazioni: scritto con brio e profonda intelligenza dal padre della moderna etologia, l'austriaco Konrad Lorenz, pubblicato nel 1949 (in Italia uscì già per i tipi di Adelphi nel 1967, mentre l'immagine di copertina a fianco è quella della 22° edizione, uscita dal medesimo editore nel 2006 - fra le immunerevoli pagine dove trovare notizie, segnalo come al solito quella istituzionale dell'Editore, a questa pagina) e poi ristampato centinaia di volte in tutto il mondo per studiosi, studenti, appassionati, pensatori di varia foggia, illuminante e tenerissimo.
Tutti gli aggettivi, e la chiarezza nitida della esposizione di Lorenz l'hanno reso un volume famosissimo, e dalle variegate capacità di influenza sul mondo e sul pensiero degli uomini.
Mi piace, di questi tempi in cui si fa sentire spesso la necessità di maggiore cautela nelle affermazioni che si sceglie di rendere pubbliche, e di maggiore umanità, riportare due passi da questo volume che raccoglie articoli e scritti usciti su riviste specializzate e non fin dagli anni '20 del Novecento - come per tutte le cose intelligenti, la patina del tempo che certe idee mostrano di possedere, ha conferito gusto e pregnanza al messaggio.

Nel capitolo in cui esamina le varie possibilità che si offrono a chi voglia comprare un animale da tenere in casa, si trova questa nota:
Ma non c'è nulla che esasperi i nervi come un animale che soffre, e già solo per questa ragione, anche se non vi fossero motivi morali più elevati, si deve caldamente raccomandare di comprare in un primo tempo solo gli animali facili da mantenere in buona salute. Avere in casa un pappagallo tubercolotico è un po' come avere un membro della famiglia moribondo: e se nonostante tutte le precauzioni un animale si ammalasse di un morbo inguaribile, non negateglie quell'atto di misericordia che un medico non può praticare ai pazienti umani in condizioni simili.
Dunque è evidente il collegamento con i dibattiti etici e pratici che animano le discussioni e le vite di migliaia di persone nel mondo...
Per non considerare però Lorenz un campione del cinismo "scientifico" dettato dalla freddezza della professione di zoologo ed etologo, soccorre un altro brano, che si legge alla fine del volume, e che rievoca i dubbi e le perplessità del Lorenz sperimentatore e gestore di una comunità di pitoni:
Molti anni fa all'Istituto di Zoologia io avevo in custodia dei giovani pitoni abituati a cibarsi di topi e di ratti morti. Poichè è più facile allevare i ratti che non i topi, sarebbe stato ragionevole nutrirli appunto di ratti, ma per far questo io avrei dovuto uccidere dei ratti giovani. Ora però i giovani ratti della grandezza di un topo domestico, con la loro testa grossa, i grandi occhi, le gambette corte e grassocce, e i loro goffi movimenti infantili, hanno tutte quelle qualità che destano in noi tanta simpatia e tenerezza verso gli animali giovani e verso i bambini. Io quindi non riuscivo a decidermi ad uccidere i ratti, e solo quando la riserva di topi dell'Istituto fu considerevolmente decimata seppi indurire il mio cuore, dicendomi che in fondo io ero uno studioso di zoologia sperimentale e non una vecchia zitella sentimentale: uccisi sei piccoli ratti e li diedi in cibo ai miei pitoni. Dal punto di vista della morale kantiana questa mia azione era ineccepibile, perchè sul piano razionale non è più riprovevole uccidere un giovane ratto che un vecchio topo. Ma, per il sentimento, le non stanno così, e io dovetti pagarla caramente per non aver ubbidito alla sua voce che cercava di dissuadermi. Per almeno una settimana quell'avvenimento mi perseguitò nei miei sogni tutte le notti: comparivano i piccoli ratti, ancor più carini che nella realtà, e avevano lineamenti di bambini, e ogni volta che io li sbattevo per terra (questo è un metodo rapido e indolore per uccidere animaletti di quel genere) gridavano con voce umana e non volevano morire a nessun costo. Indubbiamente il danno che mi ero procurato uccidendo quei cari piccoli ratti mi portò sulla soglia di una piccola nevrosi, e, edotto da questa esperienza, da allora in poi non mi vergognai mai più dei miei sentimentalismi e non mi opposi alle inibizioni di carattere emotivo.
Quando si sente parlare di eutanasia, di morte e vita, di testamento biologico e di libertà personale, si dovrebbe avere l'accortezza di rileggere queste righe, di confrontarle e comprendere come esse non siano mutuamente escludentisi, ma che anzi possono convivere amabilmente e proficuamente senza cadere in idiosincrasie e schizofrenia.
Da un etologo e filosofo come Konrad Lorenz viene quindi una lezione di scienza e coscienza tanto più valida oggi perchè pronunciata nel 1949, alla fine di una guerra tragica, con i pensieri rivolti a ben altro che a sottili questioni prive di importanza.

mercoledì 1 ottobre 2008

Dalla comunità all'individuo: una Storia della Chiesa secondo John Bossy


Già da qualche tempo in Italia si susseguono vicende e casi letterari legati a libri che trattano argomenti religiosi, e almeno due fra 2007 e 2008 hanno segnato la scena storiografica: il libro di Ariel Toaff "Pasque di sangue", uscito e subito ritirato nel febbraio del 2007 (adesso in una nuova edizione uscita nel febbraio del 2008 per l'editore IlMulino), che ha per tema le vicende dell'ebraismo ashkenazita nei secoli del Medioevo; e il volume di Sergio Luzzatto intitolato "Padre Pio", che analizza la vicenda umana e ecclesiale di San Pio da Pietralcina mettendo in discussione la soprannaturalità dei segni e delle stimmate sul suo corpo (una scheda sul libro, pubblicato da Einaudi nel 2007, si legge a questa pagina).
In questo clima mi piace ricordare il libro di uno storico inglese, John Bossy, dal titolo "Dalla comunità all'individuo. Per una teoria sociale dei sacramenti nell'Europa moderna", (uscito da Einaudi nel 1998 - una scheda si legge nella pagina dell'editore) che tratta un tema tutt'altro che slegato rispetto alle questioni dei rapporti con l'Ebraismo o con la spiritualità del Novecento per come si è manifestata verso la ricerca di figure di "santità conclamata", da Padre Pio al grido di "Santo subito!" urlato prepotentemente alla morte del papa più mediatico del Novecento, Giovanni Paolo II.
La personalizzazione dell'esperienza religiosa che la modernità ci consegna, ha visto decadere le forme sociali delle liturgie, dei riti e dei sacramenti, per accentuare al contrario l'assunzione singola del rapporto col divino - risultato della Controriforma ma anche delle nuove idee della scienza e di un rapporto differente della religione con la politica del tempo.
In un'epoca in cui si manifestano sempre più forti contrasti nelle "pratiche religiose" della cristianità (e soprattutto del cattolicesimo romano), un libro come questo di Bossy offre molti spunti di riflessione per comprendere i movimenti religiosi, le "innovazioni-rivoluzioni" della liturgia in latino preconciliare o il sacerdozio femminile alla luce di quella personalizzazione che spinge sempre più la religione verso l'orizzonte di un bisogno esclusivo e spesso lontano dalla ecclesìa.

sabato 20 settembre 2008

La "Parola" nei "Diari" di Franz Kafka

26 Dicembre 1910. Due giorni e mezzo ero solo (benchè non del tutto) e già sono, se non mutato, sulla via di esserlo. La solitudine ha su di me un potere che non si smentisce mai. Il mio intimo si scioglie (per ora soltanto superficialmente) ed è disposto a lasciare via libera a qualcosa di più profondo. S'incomincia a costruire un piccolo ordine del mio intimo che è ciò che più mi occorre, poichè non c'è di peggio del disordine quando si hanno esigue capacità.
27 Dicembre. La mia energia non è più sufficiente a formulare una proposizione. Eh sì, si trattasse di parole, se bastasse aggiungere una parola e si potesse allontanarsi con la coscienza tranquilla di aver completamente empito di sé questa parola.
Alla fine del suo primo anno di resoconto personale, Franz Kafka ha ampliato la cerchia delle sue conoscenze nel mondo praghese, ha frequentato salotti intellettuali e incontrato studiosi e pensatori (su tutti Albert Einstein) e dunque anche le idee sulla relatività delle leggi fisiche e l'insondabilità dell'animo umano (la psicanalisi). Si prepara a viaggi in molte località europee e viene dall'esperienza di un club a ispirazione socialista rivoluzionaria - sta male, e nell'anno successivo frequenterà una casa di cura per la sua malattia polmonare.
Finirà di scrivere i suoi Diari tredici anni dopo, un anno prima della morte (avvenuta il 3 giugno del '24, mentre l'ultima pagina del diario reca la data 12 giugno 1923), con una costante attenzione per le parole, e la Parola in particolare - la cifra del mutismo e del silenzio che avvolge i suoi racconti e i romanzi.
È un'attenzione tutta ebraica, teologica: anche se Kafka diffidava delle interpretazioni teologiche che potevano venire ai suoi scritti applicate - eppure la costanza, la pendolarità almeno del tema mostra quanta necessità vi fosse di affrontarlo, di superare paure e reticenze anche verbali, scrittorie verso quel pensiero.
Sempre più pavido nello scrivere. Ed è comprensibile. Ogni parola rigirata nella mano degli spiriti - questo slancio della mano è il loro movimento caratteristico - diventa una lancia rivolta contro chi parla. In modo particolare un'osservazione come questa. E così all'infinito. L'unica consolazione sarebbe: accade, tu voglia o non voglia. E ciò che vuoi è di aiuto appena percettibile. Più che consolazione è: che anche tu possiedi armi.
Chi è il tu a cui si rivolge Kafka?
Si tratta forse di una donna, forse la Krizanovskaja che compare nella voce immediatamente precedente nel diario? O la Krizanovskaja è una strada, illustrata in cartolina come nel medesimo passo si legge? O il tu è riferito alla compagna degli ultimi mesi di Kafka, Dora Dyamant? O lo scrittore si rivolge a Dio? Oppure a sé stesso?
In ogni caso quelle armi che sono di consolazione nell'ultimo pensiero di Kafka, sono armi la parola e il destino che le incombe, quello cioè di essere strumenti offensivi che si rivoltano contro verso chi le pronuncia, termini e voci che si è perso il potere di dominare e di indirizzare ma che invece cercano, uscendo dai denti, la loro violenta libertà trasformandosi in lance che colpiscono il parlante, anche quando pensa e ancora non ha pronunciato nulla.
Nemmeno Kafka è padrone, come tanti poeti del Novecento, della parola e del suo potere nominatorio - il fatto è che qui non si tratta di una diminutio nella potenza conoscitiva che deriva dal possedere l'alfabeto del mondo, quanto di scoprire che la vera natura dei pensieri e dei concetti che le parole esprimono è infida e minacciosa, violenta e imprevedibilmente crudele, pronta a lottare contro il proprio creatore.
Come se il Mondo, portato all'esistenza da Dio con la Parola, si mostrasse riottoso verso quell'atto, che in realtà non presuppone Dio e addirittura lo cancella ("[...] diventa una lancia rivolta contro chi parla. In modo particolare un'osservazione come questa. E così all'infinito. L'unica consolazione sarebbe: accade, tu voglia o non voglia").
A cosa valgano delle armi che condividono lo stesso destino per un altro parlante, è facile immaginare: alla distruzione ancor più totale e coinvolgente di una Guerra non soltanto mondiale, non meramente umana - un'immagine sarebbe quella a Kafka contemporanea dell'ecpirosi finale de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. La completa distruzione di ogni rapporto basato sul linguaggio, ragione o affetto e sentimento che sia; dunque la distruzione di ogni rapporto con Dio.
Inutile allora lanciare una profezia ex post con Kafka e arrivare dalle sue parole al genocidio consumato da lì a qualche anno nella Germania nazista - non solo il silenzio di Dio, ma le parole di libertà - "Arbeit macht frei" - che divennero lance.

mercoledì 17 settembre 2008

Glenn Gould, L'ala del turbine intelligente

"Strano modo di pensare: malgrado la sua semplicità da buon provinciale, Bach è il più tipico esempio del genio musicale completamente avulso dal suo tempo, non perché precorre storicamente (cronologicamente) il futuro, ma perché la parte più significativa della sua opera trae ispirazione dal passato, dall'epoca d'oro di quella polifonia che per i suoi contemporanei era ormai morta e sepolta".
Queste parole di Glenn Gould si leggono in una delle prime e più fortunate raccolte di scritti sulla musica del pianista uscite in Italia, pubblicata per la prima volta da Adelphi nel 1988 con il titolo che viene da un verso di una poesia di Baudelaire, L'ala del turbine intelligente.
Quaranta fra articoli pubblicati in riviste musicali (e non), note di copertina per registrazioni, interviste immaginarie, dove proprio le parole che Gould dedica a Bach definendolo "buon provinciale" fanno luce appunto sul genio musicale del pianista canadese che si ritirò per lunghi anni di solitudine nella sua casa in mezzo ai boschi, e si immerse anch'egli in forme di pensiero e composizione, come la fuga, utilizzate di rado dai suoi contemporanei.
Un esempio ne sia la notissima fuga So you want to write a fugue, che Gould compose per una serie di trasmissioni per la televisione canadese, e che viene presentata in un scritto presente nel libro, con un procedimento letterario che si avvicina fortemente a quello musicale, imitazione e variazione per linee strette di pensiero che solo un grande pensatore come lui poteva creare.
Basta dare, in fondo, solo uno sguardo al fittissimo Indice dei Nomi che si trova a conclusione del volume per rendersi conto delle letture e della raffinatezza intellettuale di Gould, che fu veramente "un genio musicale avulso dal suo tempo".
Potete trovare altre informazioni sul sito della casa editrice, a questa pagina.

martedì 12 agosto 2008

Solitudine d'agosto: Gottfried Benn e Meister Eckhart

Einsamer nie -

Einsamer nie als im August:
Erfüllungsstunde - im Gelände
die roten und die goldenen Brände,
doch wo ist deiner Gärten Lust?

Die Seen hell, die Himmel weich,
die Äcker rein und glänzen leise,
doch wo sind Sieg und Siegsbeweise
aus dem von dir vertretenen Reich?

Wo alles sich durch Glück beweist
und tauscht den Blick und tauscht die Ringe
im Weingeruch, im Rausch der Dinge -
dienst du dem Gegenglück, dem Geist.


Mai più solitario -

Mai più solitario che in agosto:
la pienezza dell'ora - per le terre
gli incendi del rosso e dell'oro,
ma il piacere dov'è dei tuoi giardini?

I mari chiari, i cieli teneri,
i campi puri e brillano leggeri,
ma dove sono i trionfi e le prove
del regno che tu rappresenti?

Dove tutto per successo si legittima
e si scambiano lo sguardo e gli anelli
nel profumo del vino e nell'estasi delle cose -
tu servi la sconfitta, servi lo spirito.

Con qualche minima modifica questa è la traduzione di Giuliano Baioni di una poesia di Gottfried Benn che si legge nelle Statische Gedichte (Poesie statiche), la sua più importante raccolta del secondo dopoguerra.
Certo, la solitudine del primo verso si comprende in tutta la sua portata soltanto con l'ultima parola, spirito: "Einsamer Geist" - un riassunto che varrebbe come omaggio a tutta l'ermeneutica del Novecento fondata sullo Zirkel (si leggerà, con senso leggermente diverso, Ring, "anello", nell'ultima strofa del componimento), sul cerchio, e che ha il suo centro fondante nel Nietzsche tanto amato da Benn, quello dell'ewige Wiederkehr, l'Eterno Ritorno circolare.
Ma si tratta di una Einsamkeit non altezzosa, quanto più (trattandosi di un servizio - "dienst du..." dell'ultimo verso) di una "nobile intrapresa", di una solitudine da ascriversi alla Vornehmheit (il referente verbale è vornehmen, dunque nehmen non tanto nel senso di "prendere, afferrare", quanto precipuamente nel senso di der Geist auf sich nehmen, quasi "assumersi la responsabilità dello spirito"). Si corre presto a Eckhart, alla Vornehmheit des Geistes che significa "nobiltà dello spirito", quindi un servizio nei confronti dello spirito da praticare con umiltà, ma che per Benn vuol dire sconfitta nella prova, e leggendo letteralmente, un "rovescio di fortuna", Gegenglück.
Ma Eckhart riesce illuminante anche in un ulteriore confronto lungo tutto il corso della poesia di Gottfried Benn. Si legga questo passo del sermone "Intravit Iesus in quodam castellum et mulier quedam, Martha nomine, excepit illum in domum suam":
Ho anche detto spesso che c'è nell'anima una forza che non è toccata né dal tempo né dalla carne; essa fluisce dallo spirito e permane nello spirito, è assolutamente spirituale. In questa forza Dio verdeggia e fiorisce incessantemente in tutta la sua gioia e dolcezza.
È una gioia così intima e così ineffabilmente grande, che nessuno è capace di esprimerla pienamente. Infatti l'eterno Padre genera incessantemente il suo eterno Figlio in questa potenza, in modo tale che essa coopera alla nascita del Figlio e di sé stessa, quale medesimo Figlio nell'unica potenza del Padre. Se un uomo possedesse tutto un regno o tutti i beni della terra e li abbandonasse puramente per Dio, divenendo uno degli uomini più poveri che vivono sulla terra, e se poi Dio gli desse tanto da soffrire quanto abbia mai dato ad un uomo, se egli soffrisse tutto ciò fino alla morte e Dio gli lasciasse gettare una sola volta uno sguardo su ciò che egli è in questa forza, allora la sua gioia sarebbe così grande che tutta questa sofferenza e questa povertà sarebbero state ben piccola cosa. Sì, anche se Dio non gli concedesse mai il paradiso, egli avrebbe nondimeno ricevuto una ricompensa molto grande per tutto quello che aveva sofferto; Dio è infatti in questa forza come nell'eterno presente. [...] C'è ancora un'altra forza che è incorporea, fluisce dallo spirito e permane nello spirito, ed è assolutamente spirituale. In questa forza Dio arde e splende incessantemente con tutta la sua ricchezza, con tutta la sua dolcezza e la sua gioia. In verità, in questa forza Dio stanno una gioia tanto grande ed un così immenso incanto, che nessuno è capace di parlarne o rivelarlo completamente. Lo dico ancora una volta: se qualcuno potesse là comtemplare per un istante con il proprio intelletto secondo verità le gioie e l'incanto che vi è contenuto, tutto quel che potrebbe soffrire e tutto quel che Dio volesse fargli soffrire, tutto ciò sarebbe per lui poca cosa, o nulla di nulla. Dico di più: ciò sarebbe per lui assolutamente una gioia ed una soddisfazione.
Allora appare chiaro a cosa si riferisca Benn quando nel secondo verso dice Erfüllungsstunde, poichè quella Erfüllung è in realtà un "adempimento", la "realizzazione" di una promessa di gioia e di felicità, per seguire Eckhart: dinanzi a questo compimento le parole cedono il passo ("nessuno è capace di parlarne") alla contemplazione ammirata del paradiso, al Gärten Lust ineffabile. La traccia visibile, tangibile di questa Erfüllung che Benn evoca è nel Brand, nell'incendio divino (Eckhart ha due sinonimi, brennen e glänzen - come glänzen userà qualche verso più sotto Benn) della forza dell'amore; e non è un caso che i colori usati dal poeta siano due fra i più ricchi di simbolismo della cristianità, il rosso e l'oro, la "forza" appunto e la "potenza" di Dio.
In effetti paradisiaca è l'intera descrizione della seconda strofa nei primi due versi (vi si leggono tre inequivocabili aggettivi, hell, "chiaro, luminoso", weich, "tenero, morbido" e leise, "leggero, delicato", oltre che il profondo rein, "puro"), e paiono tolti direttamente dal libro della Genesi i vari Seen, Himmel, Äcker. Per contrasto quindi si legge la richiesta di mostrare la Erfüllung, la pienezza raggiunta nel vertreten ("rappresentare", ma anche "difendere") il Reich, il Regno, di certo anche quello dei cieli. Si chiede che la vittoria, Sieg, sia palese e "lampante" e che vi sia un segno della vittoria, un Beweis che consenta di riconoscere il Regno (dunque si chiede un segno di Weisheit, "conoscenza" più "saggezza"). Ma il Reich è lo stesso a cui si richiama Eckhart mettendone in luce tutta la nullità in confronto con la gioia che promana da Dio: "Se un uomo possedesse tutto un regno o tutti i beni della terra e li abbandonasse puramente per Dio...", e Benn si prepara già a dichiarare anch'egli una nullità in questo regno.
L'Erfüllung della gioia del Regno si può perdere facilmente, senza capire perchè: così capita al giusto penitente di Eckhart ("se Dio gli desse da soffrire tanto da soffrire quanto mai abbia dato ad un uomo"), capita a Giobbe e ad ognuno - ma ciò perchè "alles sich durch Glück beweist", ogni cosa ha il suo fondamento, la sua prova e la sua dimostrazione nella Fortuna, che è mutevole, cedevole. Viene meno dunque la fiducia in Dio, e con essa la capacità di confronto sereno e si direbbe paritario con la divinità, poichè viene meno il Blick, lo sguardo; ma anche il patto di alleanza, il Ring fiducioso nell'onestà delle parti. Nella discesa dal paradiso, nella perdita della pienezza, lo scambio che si compie è quello verso l'ebbrezza del mondo: ci si perde nel "profumo di vino" e nell'estasi, Rausch (non a caso in rimalmezzo con Tausch, "scambio") der Dinge, l'estasi delle cose.
La Weisheit di cui l'uomo godeva nel Paradiso è perduta irreparabilmente (perchè non si conosce la ragione della cacciata, dunque della sofferenza inflitta all'uomo): arriva il Gegenglück, il colpo contrario della Fortuna, ben poco stabile fondamento, in fondo; ed è una sconfitta. Una sconfitta che però non afflige poi pesantemente l'umanità, se questa com'è fisiologico, s'abbandona all'estasi delle cose del mondo e del vino, alla sbornia che aiuta a ottenere una felicità perduta (pare di risentire il Nietzsche dello Zarathustra: "Un po' di veleno di tanto in tanto: procura sogni piacevoli. E molto veleno alla fine, per una morte piacevole").
Il Gegenglück colpisce violentemente chi rimane in servizio dello spirito, in realtà chi si assume lo spirito: il Vornehm che come lo Zarathustra di Nietzsche è un solitario perchè ha preso su di sé il Geist, e nel momento della pienezza dell'anno, agosto, sente più che altrimenti la sua estraneità al mondo e agli uomini - einsamer nie.

domenica 8 giugno 2008

Ernst Jünger: la memoria della felicità

Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessuno rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria

Infandum, regina, iubes renovare dolorem
("Regina, un dolore che non dovrebbe esser ridetto mi imponi di dire")

Tu vuoi ch'io rinnovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme

Nam in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem
("Infatti, fra tutte le difficoltà del destino la più infelice è quella di chi è stato felice")

Questi brani vengono (in ordine) dall'incipit di uno dei più luminosi romanzi di Ernst Jünger, Auf der Marmorklippen (in Italia è pubblicato da Guanda col titolo "Sulle scogliere di marmo"), dal Canto V della Commedia di Dante Alighieri (vv. 121-123), dal Libro Secondo dell'Eneide di Virgilio (v. 3), dal Canto XXXIII della Commedia (vv. 4-5), e dal Libro Secondo della Consolatio Philosophiae di Severino Boezio (cap. 4, par. 2).
Basterebbe solo l'indicazione per leggere il percorso dell'idea dal mondo classico di Virgilio alla filosofia tardo-antica e feconda per il Medioevo di Boezio fino a Dante, e per dire quanto sia presente anche in un lettore coltissimo e raffinatissimo come è stato Jünger - e le parole sarebbero infatti, inutili, se non si potesse ritrovare anche altro nello scrittore tedesco, una dimensione classica che lo apparenta anche a Kostantinos Kavafis (leggi questo post).
La dimensione dell'amore lega e circonfonde (per usare un termine del romanzo) l'apertura di Auf der Marmorklippen come in una atmosfera greca, un'anfora pronta per raccogliere le libagioni da offrire ad una giovane morta - viene in mente il Leopardi di Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, con la dolcezza smisurata dell'inizio:

Dove vai? Chi ti chiama
lunge dai cari tuoi,
bellissima donzella?


Noi sappiamo che lì il discorso è sulla imperscrutabile rete del destino che avvolge le esistenze degli uomini; ma potremmo pensare anche ad atmosfere diversamente leopardiane e poi novecentesche - e Jünger ne è ancora il filtro, il collettore ultimo.
Non è un caso che in questo luminoso romanzo la vicenda si avvii allo snodo conclusivo con queste parole, che ripercorrono nuovamente la memoria e il suo statuto costitutivo della letteratura e dell'Essere:

Attraverso le ombre del fumo mi sembrò di intravedere più volte l'ombra del mostro, ma sempre troppo fuggevole per aver agio di colpirlo. Inoltre, nel vortice, false immagini mi trassero in errore, sicché infine mi vidi sperduto nella selva. E udii un fruscio e il pensiero m'intimorì che la fiera mi avesse aggirato per assalirmi alle spalle. Per esser sicuro da tal pericolo m'inginocchiai sul terreno, tenendo presso di me il fucile e avendo alle spalle, per difesa, un roveto.

Una moderna spada - il fucile - un roveto per difesa, una selva e un mostro: la condizione novecentesca per un novello Parsifal, o un novello Mosè; forse un poeta, un letterato, un homo europaeus in preda al singolare contrappasso di ricordarsi di sé stesso sapendo che non troverà più la coppa della vita piena.

venerdì 6 giugno 2008

Modernità di Apollonio: la "poesia" come salvezza e il Montale "argonautico"

Μνώεο μήν, ἀπεών περ ὁμῶς καὶ νόστιμος ἤδη,
Ὑψιπύλης· λίπε δ'ἧμιν ἔπος , τό κεν ἐξανύσαιμι
πρόφρων, ἢν ἄρα δή με θεοὶ δώωσι τεκέσθαι
Ricordati dunque di Issipile, anche lontano, anche quando
sarai ritornato, e lasciami una parola, ch'io possa seguire con tutto il mio cuore,
se gli dei mi concedono di dare alla luce un tuo figlio(vv. 896-898, trad. Guido Paduano)

Nel Libro Primo delle
Argonautiche di Apollonio Rodio, la regina dell'isola di Lemno, Issipile figlia di Toante, così dichiara il suo amore a Giasone, capo della spedizione eroica che dovrà prendere nella Colchide il vello d'oro per donarlo al re Pelia.
Giasone, come sarà Enea con Didone (vedi questo post precedente), è costretto ad abbandonare la reggia lemnota per continuare - di malavoglia e con grandi dubbi - il suo viaggio:
μοῦνόν με θεοὶ λύσειαν ἀέθλων

purché gli dei mi liberino da quest'impresa
eppure la regina cerca un contatto, un'ancora alla quale aggrapparsi nella speranza di salvare l'isola che regge e governa dall'infelice destino dell'annientamento e della morte - le donne di Lemno sono vittime dell'ira di Venere, che ha spinto i loro mariti a tradirli per delle schiave tracie, e che ha indotto loro, le mogli lemnote, a uccidere i coniugi. Un'isola senza futuro, quindi - ecco perchè la speranza del possibile miracoloso figlio da Giasone.
Sarà la
parola, da seguire con tutto il cuore, a dare la speranza: è il compito della poesia - capace di mutare la storia e il destino -, che subito viene smentito dallo stesso modernissimo eroe, drammaticamente impotente contro le forze che lo opprimono e lo legano.
Tanto più moderno Apollonio, se lo si legge in filigrana nei versi di Eugenio Montale di
Non chiederci la parola, uno dei componimenti più famosi di Ossi di seppia:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Nemmeno da questo moderno Giasone nasce nulla, anche qui l'unico risultato è un'esclusione, un limite negativo,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
come sarà quello dichiarato da Apollonio per mezzo del suo eroe, che sposta in un incerto futuro la soluzione alla richiesta di impegno di Issipile, alla sua speranza:
Εἰ δ'οὔ μοι πέπρωται ἐς Ἑλλάδα γαῖαν ἱκέσθαι
τηλοῦ ἀναπλώοντι, σὺ δ'ἄρσενα παῖδα τέκναι
,
πέμπε μιν ἡβήσαντα Πελασγίδος ἔνδον Ἰωλκοῦ
πατρί τ'ἐμῷ καὶ μητρὶ δύης ἄκος, ἢν ἄρα τούς γε
τέτμῃ ἔτι ζώοντας

Ma se non sarà destino ch'io torni in terra di Grecia,
ma navighi sempre lontano, e tu avrai un figlio maschio,
quando sarà cresciuto mandalo a Iolco pelasga,
che sia conforto nella sventura a mia padre e mia madre
- se li trova ancor vivi -

Dunque una speranza che è destinata a soccombere - modernamente, decadentemente - contro la morte, la vecchiaia, la sfinitezza; non per un atto eroico, ma forse per un più ancora eroico non sapere che Apollonio lascia cadere fino a Montale.

domenica 1 giugno 2008

John Searle e lo specchio: la "Stanza Cinese" e le neuroscienze

Qualche giorno fa su "Repubblica.it" è apparso l'articolo (che si legge a questa pagina) di neurologia fra i più interessanti di queste settimane.
Alcuni ricercatori hanno condotto degli esperimenti con l'ausilio della Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging) per individuare pattern di connessioni neuronali fra oggetti concreti e l'immagine mentale ad essi collegati - e hanno fatto predire al computer il percorso e le aree del cervello interessate rispetto ad un campione di parole/oggetto concreto non completamente coincidente con quello analizzato in partenza. Insomma, una sorta di previsione del pensiero, condotta con i metodi statistico-probabilistici che consentono ai computer attuali interazioni di larga scala con moli enormi di dati.
Io ho subito pensato (chissà quali aree del cervello mi si sono attivate) ad una sorta di ulteriore esperimento della Stanza Cinese, il famoso argomento ed esperimento mentale proposto e usato da John Searle per criticare le pretese della "teoria dell'intelligenza artificiale forte" (una lunga e articolata voce si legge su Wikipedia a questa pagina, con link verso l'articolo originale di Searle, che è del 1980).
In sostanza (e riassumendo in maniera forse troppo brutale) Searle afferma e argomenta che un computer, essendo un manipolatore di simboli, non sia tenuto ad interpretare ciò che riceve e trasmette per dare l'idea di comprendere effettivamente quel che "dice" - la correttezza della sintassi, e l'adeguatezza comunicativa, non porterebbero dunque ad una effettiva comprensione semantica, quindi al significato di quel che si dice.
Siccome l'esperimento è costruito con l'interazione macchina-uomo (si immagina una conversazione in cinese fra un parlante cinese e un computer adeguatamente istruito), forse una fMRI potrebbe svelarci qualcosa sulla "creazione di significato" nell'uomo - risolvendo il dubbio se sia anche una questione di adattamento da parte dell'uomo che riceve risposte plausibili da parte del computer il fatto che creda di parlare ad un'altra persona.
Non si risolverà forse il problema di come dalle strutture sorga il significato - quindi dalla sintassi si arrivi alla semantica: René Thom e Jean Petitot-Cocorda (a questa pagina una interessante tesi di Henk Verdru che analizza la semiotica di Umberto Eco e la confronta in un capitolo denso, con le posizioni di Petitot-Cocorda) hanno provato con la modellizzazione matematica della teoria delle catastrofi e della morfogenesi del senso - che è il titolo del libro più famoso di Petitot-Cocorda, edito da Bompiani - a dare una visione generale di questa epigenesi del significato, analogamente a quanto avviene in chimica o in biologia.
Almeno però avremo la possibilità, durante l'esperimento anche mentale di Searle, di mettere uno specchio di fronte all'uomo, e osservare le sue reazioni neuronali - chissà che Narciso non spunti fuori con la mano tesa...

lunedì 26 maggio 2008

Il Secolo Aereo

Quando l'affascinantissimo volume di Eric Hobsbawm dal titolo Age of Extremes - The Short Twentieth Century 1914-1991 uscì nel 1994 (in Italia ha dato anche spunto ad una sorta di categoria storiografica come quella di "secolo breve" stante il titolo della sua traduzione del 1999, Il Secolo breve - 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi), la lettura serissima e per certi versi in tutto condivisibile del Novecento proposta dallo storico britannico era stata in un certo senso preparata da un altro volume storiografico (non equiparabile - positivamente o negativamente) e profetico. Si tratta di The End of History and the last man di Francis Fukuyama, che fu pubblicato nel 1992, e che ha quasi nello stesso modo indotto alla creazione di una categoria come quella di "fine della storia".
Se il primo viene dal rigore ricostruttivo e interpretativo di Meinecke e della storiografia tedesca dell'Ottocento (non propongo una analisi puntuale delle tesi di Hobsbawm, né delle argomentazioni, ovviamente), il libro di Fukuyama sembra più legato all'esperienza di uno storico ingiustamente dimenticato come Arnold Toynbee, anch'egli antichista di formazione come il politologo nippoamericano.
La storia, s'è visto (e i dubbi potevano, nel 1992/1994, giustamente esistere) è continuata, senza curarsi troppo delle interpretazioni - e non vi sia polemica fasulla e zoppicante: i poli sono stati scompaginati e gli equilibri si sono stabilizzati verso un'ulteriore decadenza di modelli ormai invecchiati che adesso portano a immagini di catastrofi nella cultura di massa, a insabbiamenti (anche fisici) di rifiuti e a nuove mura e nuove separazioni. Quasi fosse una nuova forma di colonialismo - quella che si propone di usurpare gli ultimi luoghi incontaminati del pianeta, prima che le popolazioni povere si accorgano del misfatto.
Eppure non sfugga che il "secolo breve" del Novecento si apre e si chiude nel segno di un "secolo aereo", dominato dal progetto di Icaro, e come questo - per amor di mito e letteratura - caduto.
Non si tratta di individuare il valore inestimabile dell'aeronautica in tutti gli ambiti della vita del Novecento: sarebbe un'operazione di autoevidenza.
Ma è nel 1918 che si apre un secolo, e questo si chiude nel 2001: il maggiore Gabriele D'Annunzio sorvola con una squadriglia di aeroplani la città di Vienna e crea il primo attentato terroristico condotto con mezzi aerei, lanciando centinaia di migliaia di volantini sulla popolazione. Nei due messaggi scritti su quei fogli di carta (uno dello stesso D'Annunzio, più blando; un altro, molto più diretto e brutale, di Ugo Ojetti - si leggono a questa pagina) si intravvede la fiducia ardita nelle nuove tecnologie, la genialità comunicativa del gesto militarmente mancato, e per questo molto più efficace.
L'attacco alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York l'11 settembre 2001 è la conclusione di una logica intesa e fatta scaturire da D'Annunzio: non è tanto la morte di migliaia di persone né la contemporanea pretesa di attacco all'edificio del Pentagono - la potenza militare statunitense, occidentale - ma l'attacco al simbolo della Torre di Babele, dunque il potere tronfio che i terroristi hanno letto in chiave religiosa.
Un simile caso di attacco al simbolo può essere rinvenuto facilmente nella madre delle rivoluzioni, la presa della Torre della Bastiglia che segnò lo scoppio ufficiale della Rivoluzione Francese - ma allora si aggiungono tutte le torri e colonne fatte cadere, dalla Colonna di Austerlitz abbattuta a
Place Vendôme a Parigi durante la Comune del 1871 (quella che costò cara al pittore Courbet, ingiustamente accusato del fatto) a quella colonna fallica come la statua di Saddam Hussein all'entrata dei soldati a Baghdad - abbattuta in diretta mondiale il 9 aprile 2003.
Ma sono quindi gli aerei ad aprire e chiudere il secolo, da questo punto di vista insieme storico e latamente culturale e simbolico: anche la mondovisione dell'abbattimento della statua di Saddam è figlia della diretta delle Torri Gemelle, così come delle immagini del Muro di Berlino con le pompe ad acqua dell'esercito e di Mstislav Rostropovič che suona Bach fra i berlinesi.
Il secolo aereo aggiunge al simbolo la violenza, che non è più puramente di azioni, ma di pensieri: quello sconvolgimento che chiamiamo terrore.

L'occidente, il Petrolio e le Mura

Bellissima.
Ingrid Bergmann, con i capelli corti, le labbra rosse e morbide, la selvatichezza e la dolcezza delle sue lacrime.
Gary Cooper, le sue paure e le sue ritrosie verso il dovere, il coraggio.
Leggere "Per chi suona la campana" avendo in mente il film è una doppia esperienza esaltante, per la bravura di Hemingway e per i colori e le immagini della pellicola.
Ad aprire quel romanzo una raffinatissima citazione del poeta metafisico per eccellenza, John Donne, che nel Seicento inglese scrisse questi versi celeberrimi in un suo Sermone:

Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d'uomo mi diminusce,
perchè io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.

Parlano anche di oggi, come si parla a tutte le utopie - e qualcuno già da secoli le chiama "distopie", utopie negative nelle quali si pensa il male futuro, l'abominio e lo sterminio delle persone e degli spiriti.
Ora che "la Repubblica on-line" fa leggere un articolo di Paolo Pontoniere su una futuribile e prossima società marina, da realizzare tecnologicamente sfruttando delle postazioni petrolifere off-shore da ancorare in acque internazionali, rese autonome da alimentazione energetica alternativa, e ancor più autonome perchè apolidi e senza bisogno quindi di riconoscimenti politici che non siano de facto per la loro esistenza, il cammino di questa utopia appare un po' più chiaro.
Già nei progetti si delinea la vita sulle "isole": biblioteche, luoghi di incontro, spazi privati né spartani né da nababbi - soprattutto, come sempre in questi casi, la necessità di approvvigionarsi a terra per le risorse alimentari e tecnologiche.
Qui addirittura il progetto viene allo scoperto: niente Tommaso Moro, né Campanella - collegamenti satellitari ed internettiani renderebbero le postazioni off-shore un luogo di villeggiatura diverso, dove poter dimenticare senza rischi di essere la parte di Occidente che continua a elevare mura (Israele, Padova - la vecchia Berlino, il nuovo Sud Africa) e a consumare petrolio.
Ma non vorrei proporre un ragionamento tanto banale: in realtà è Donne a scompaginare tutto dopo tre secoli dalla sua scrittura e preghiera - l'Occidente nega che la "morte d'uomo" lo diminuisca, e cerca, con i miliardari di Las Vegas e Silicon Valley, di perpetrarsi (chissà, come paradiso fiscale forse, viste le dichiarazioni sullo statuto politico già fatte circolare) in un posto tecnologicamente separato dalla morte stessa, brillante come un sogno che si desidera non tanto rendere concreto, ma appunto sognare. Questi occidentali che dovrebbero accontentarsi di giacere su un continente che è già un'isola, l'unica su cui abitiamo.
Se arriva il tramonto dell'occidente, proprio l'immagine di un paradiso costruito su postazioni petrolifere resta impressa - non possiamo fare a meno di costruire il futuro, secondo alcuni, con gli strumenti spuntati e inefficaci del presente, con quegli stessi strumenti con i quali imponiamo il futuro ad altri.

venerdì 23 maggio 2008

Il Giudice e il Mentitore: Montaigne, Zenone, Russell e Kafka

Fin dall'antichità è stato riferito - chi a Zenone Eleate, chi a Crisippo - il paradosso che va sotto il nome di Paradosso del Cretese, o Paradosso del Mentitore, e che la logica indica oggi con alcune diciture, la più conosciuta delle quali è di certo quella di Paradosso o Antinomia dei Tipi.
"Cittadini, voi che avete udito il mio discorso: io sono Cretese, e tutti i Cretesi mentono", questa più o meno la lettera del paradosso, nei tempi moderni proposta nella forma dettata con rigore di logica matematica da Bertrand Russell con la Teoria dei Tipi, e poi, dopo la scoperta dell'antinomia ad essa legata, nella forma della verità metalinguistica di Alfred Tarski.
Banalmente, se appartengo al club dei mentitori e lo dichiaro, nessuno potrà decidere - con certi strumenti formali - dove io stia dicendo la verità o pronunciando apparentemente innocue menzogne. Quindi il paradosso è stato assimilato anche a quegli altri problemi logici che riguardano l'autoconferma (come "La frase che stai leggendo ha un solo segno di punteggiatura.") e in generale i livelli di analisi per la costruzione di "Proposizioni-ben-formate".
Eppure a me è venuto da pensare ad un rapporto possibile fra un Giudice e un Mentitore, leggendo questo giudizio di Michel de Montaigne, contenuto nel Capitolo VIII, "Dell'arte di conferire" o "Dell'arte di parlare in pubblico", nel Libro Terzo degli Essais:

Il est impossible de traitter de bonne foy avec un sot. Mon jugement ne se corrompt pas seulement à la main d'un maistre si impetueux : mais aussi ma conscience.

Trattare in buona fede con un mentitore è impossibile. Il mio giudizio non si corrompe soltanto sotto la mano di un maestro così impetuoso - ma anche la mia coscienza
.

Il Giudice non deve esaminare la validità logica di quel che il Mentitore propone - deve mantenere viva la capacità di non ascoltare il suo imputato.
Alla lettera, deve usare un linguaggio che non rifletta nulla di quel che promana dall'impeto del Mentitore stesso: in un certo senso, deve giudicare una forma che non può prendere fra le mani e analizzare - il metalinguaggio del Giudice non deve in nulla scambiare termini, costruzioni, sintassi, grammatica, con quello dell'imputato Mentitore.
Ne va della buona coscienza, serena, che deve essere mantenuta - si cadrebbe in un percorso di risparmio che invece amplificherebbe il dispendio: capire cosa accada nelle parole del Mentitore, permetterebbe a questi di aver salva la vita, di scampare alla condanna.
Il Giudice, potrebbe lavorare senza Imputato, dunque.
La Giustizia creare menzogneramente la logica contro cui battersi, senza aver bisogno di vincere.
Come nel Processo di Franz Kafka.

lunedì 19 maggio 2008

Kavafis e Polimede di Argo: riflessioni su "Ricorda, corpo..."

Σώμα, θυμήσου όχι μόνο το πόσο αγαπήθηκες,
όχι μονάχα τα κρεββάτια όπου πλάγιασες,
αλλά κ’ εκείνες τες επιθυμίες που για σένα
γυάλιζαν μες στα μάτια φανερά,
κ’ ετρέμανε μες στην φωνή — και κάποιο
τυχαίον εμπόδιο τες ματαίωσε.
Τώρα που είναι όλα πια μέσα στο παρελθόν,
μοιάζει σχεδόν και στες επιθυμίες
εκείνες σαν να δόθηκες — πώς γυάλιζαν,
θυμήσου, μες στα μάτια που σε κύτταζαν·
πώς έτρεμαν μες στην φωνή, για σε, θυμήσου, σώμα.

Corpo, ricorda, e non solo quanto fosti amato,
non soltanto i letti in cui giacesti,
ma anche quei desideri che per te
brillavano chiari negli occhi,
e tremavano nella voce - e qualche
casuale ostacolo li rese vani.
Ora che tutto ormai appartiene al passato,
sembra quasi che a quei desideri
tu ti sia concesso - come brillavano,
ricorda, negli occhi che ti guardavano:
come tremavano nella voce, per te, ricorda, corpo.

Questa poesia di Konstantinos Kavafis si intitola Θυμήσου, Σώμα..., cioè Ricorda, corpo..., e fu scritta nel 1918 - il poeta aveva 55 anni. Se ne leggono moltissime in una splendida edizione elettronica curata dall'Archivio Kavafis - quella riportata sopra ha la traduzione di Paola Maria Minucci, e il testo originale si legge a questa pagina.
Non tanto perchè l'amore si spenga, ma perchè una strana equivoca malìa aleggia in questi versi del più misterioso e affascinante poeta neoellenico del Novecento - per tali motivi pare che in realtà, in questo componimento, non accada nulla, che tutto sia fermo - in fine, pare che il tempo sia sempre stato così, bloccato in equilibrio su uno stallo senza prima né dopo.
Forse è questa l'immagine più propria che la poesia di Kavafis vuole ottenere: se nella interpretazione "esterna" dei suoi poemi si comprendono facilmente le suggestioni di una decadenza vissuta nella terra par exellence di quest'atmosfera in Occidente, Alessandria d'Egitto - la patria dell'Ellenismo che viaggiava controcorrente già con i satrapi e la Biblioteca - in quella interpretazione "interna" che si può azzardare, l'omosessualità esplicitamente coltivata e dichiarata di Kavafis si sublima in una posa, spesse volte ripetuta nei suoi versi - quella del kouros in posizione stante, muscoloso ma senza esibizione, dal sorriso enigmatico, languido nella sua forza, non femmineo ma nemmeno erculeo.
Certo, tornano infinite volte le tombe, le ispirazioni degli epitimbi bizantini, quelli dell'Antologia Palatina - come tornano pure gli amori che lì si consumano e i profumi e le luci; ma in alcuni componimenti più nascosti, torna non tanto la lascivia, la brama per un piacere che sfuggirà comunque e di cui si vuole rallentare la caduta nel retrogusto amaro, quanto un'arcaica ricerca.
Non si tratta di una vana regressio alla purezza - a cosa servirebbe, ad Alessandria d'Egitto, se non ad annacquare i lunghi caffè e gli sguardi umidi di caldo e desiderio? - quanto di rievocare, sapendolo, Polimede di Argo più che Skopas o anche Kritios. Evocare un antico veramente senza necessità di mostrare la sua forza - una linfa non soggiogata a dolcezze o effeminatezze - più che l'ambiguo mestiere di chi sa di poter scambiare luci ed ombre, levigare muscoli egli efebi, e poi mascherarli sotto la brillantezza di un capo reclinato, di un salto di danza.
Il Kavafis noto è quello che mostra il suo essere necessario posto in Alessandria; quello notevole, illumina un orizzonte più lungo, azzurrino, dove i corpi soltanto, ormai senza anima, ricordano i piaceri che hanno avuto e donato, ora che proprio un tempo inutilmente trascorso li priva forse anche della memoria; e se l'anima di una effimera coppia di amanti non rimane, è bene preservare la memoria senza inganni, senza pensare di essersi concessi al piacere - bisogna gustare anche l'amaro che il dolce lascia in fondo al palato.

sabato 17 maggio 2008

"L'uomo che non credeva in Dio" di Eugenio Scalfari: un Montaigne con barba e capelli bianchi

"Il fondamento della morale, per dirla tutta, è una gran buffa e complicata questione, una spina acuminata e sottile che ci punge dentro e ci obbliga a fare i conti con la nostra passeggera felicità".
Mi unisco al fitto novero di quelli che hanno letto con interesse e piacere l'ultimo volume di Eugenio Scalfari, il fondatore di "Repubblica" ma anche e soprattutto il filosofo e teologo cresciuto alla scuola di Montaigne. Difatti quella di "pensare", per quel che traspare e per quel che dichiara nei tredici capitoli - che si leggono con sempre più vivo interesse, e fin da subito - è una sorta di necessità percepita nell'infanzia e mai più dismessa, perchè mai più soddisfatta e sempre imperante.
Allora è la "non-professionalità" del filosofo e del teologo Scalfari a rendere, se possibile, il suo discorso più interessante rispetto a quanto si potrebbe leggere in un volume di teoresi, di morale o di teologia mistica: ed è Cartesio, e non Montaigne, il campione della razionalità che Scalfari racconta di aver abbracciato sin da quando era compagno di banco, al Liceo Classico di Sanremo, di Italo Calvino - l'altro razionalista sui generis - e un professore di filosofia impose, proprio per mezzo di Calvino, la lettura integrale dei testi maggiori di Cartesio; e fu l'amore e la passione per la ragione.
Eppure non è questa la cifra unica e singolare di questa "autobiografia spirituale" che è il racconto anche della storia d'Italia dal 1924 ad oggi: capita un'impressione simile nell'ultimo romanzo del padre del nouveau roman, Alain Robbe-Grillet (nato due anni prima di Scalfari, nel 1922 e morto il 18 febbraio di quest'anno), che si intitola Dans le labyrinthe (uscì per Einaudi nel 1959 con il titolo Nel labirinto ed è l'ultimo scritto prima di affiancare anche la carriera di cineasta).
Lì si legge nelle pagine iniziali una minuziosa descrizione dell'immagine lasciata da un posacenere spostato su un mobile, la vita di un oggetto che ha "liberato" l'impronta in negativo della polvere sul piano in cui si è trovato a vivere; nel libro di Scalfari la sapienza è quella di non intervenire pesantemente, di non nascondere nulla ma facendo emergere il racconto come fosse il negativo di una polvere che si è posata sul piano della sua vita.
Nulla di patetico, né di vagamente ciranesco - l'opera di Rostand si chiude appunto con una immagine simile, che riguarda la polvere e viene affidata a De Guiche -: il fatto è che Scalfari dice senza remore "Adesso che sono vecchio ho altri pensieri".
Fra le tante recensioni dell'opera preferisco rimandare a quella neutra dell'editore, Einaudi, che si legge a questa pagina.

sabato 10 maggio 2008

"Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor.": una musica che incendia

Desine meque tuis incendere teque querellis:
Italiam non sponte sequor.

Smettila, dunque, coi pianti di ferire a fuoco te e me:
Non vado in Italia da me.


Una vecchia norma per l'ortoepia - la corretta pronuncia - dell'esametro latino, è quella di far sentire un accento per ogni arsi del piede metrico...
Già a sentire una definizione del genere, si perderebbe la voglia di leggere e ruminare fra sé e sé Virgilio, di cercare di capire come in questo Enea che si allontana da Didone, e pare sospirare con i suoi accenti, e rallentare la corsa delle sue parole, si intraveda già tanto di quegli eroi di Torquato Tasso nella sua Gerusalemme liberata, tanto di quel languore di Giambattista Marino nell'Adone, senza per questo scadere in una loquacità priva di turgore spirituale e solo brava ad imitare la sofferenza - più un cardellino in gara con un liuto, quindi, nell'Adone, dove questo è un episodio celeberrimo, che tanti amanti e rose e spine e onde fra i capelli e fulgori fra le labbra di rubino.
Insomma, in questo Virgilio, potremmo sentire, anche nella cadenza lenta delle sillabe, anche "Il portiere caduto alla difesa, ultima, vana" - quell'epica piccola, quella piccola Iliade che Umberto Saba ha donato al Novecento con le sue Cinque poesie per il gioco del pallone.
Ma per sentire un po' più veramente quell'esametro e mezzo dell'Eneide - che avrebbe questa scansione, Désine méque tuís | incéndere téque queréllis:/ Ítaliám non spónte sequór - dovremmo pensare forse al vecchio prosodiare degli avvocati nelle arringhe, a qualche brano scanzonato e irrisorio di Vittorio De Sica; al salire e scendere musicale degli accenti, che il nostro semplice rafforzamento tonico non fa che ridurre ancor più rispetto al presunto vero modo di pronunciare degli antichi Indoeuropei, Latini compresi.
Allora potremmo pure ricordarci - sentendo la musica fra le parole, sentendo lo scontro sciabordante della chiglia della nave in mare - di un verso di Apollonio Rodio nelle Argonautiche, quello proprio all'inizio del poema, quando al principio ancora del "Catalogo degli eroi" che accompagneranno Giasone nel suo viaggio, si dice

ὡς οὐκ ἀνθρώποισι κακὸν μήκιστον ἐπαυρεῖν

nessun male è così lunge dagli uomini, che non l'incontrino


e anche qui si sente un'irruzione, e poi un subito frenare delle sillabe - hṓs oúk anthrṓpoisí kakòn | mḗkiston epauréîn - che di sicuro ha ispirato, scritto qualche secolo prima, Virgilio e il suo Enea, almeno per una musica che ferisce col fuoco...


venerdì 9 maggio 2008

"Signatura rerum. Sul metodo" di Giorgio Agamben

Il Novecento è stato il secolo in cui, più degli altri, non solo si è meditato sul metodo, ma anche e forse in maniera più cospicua, sul metodo da applicare - o meno - al "metodo" stesso; producendo quindi delle metodologie. Per fare solo qualche accenno sparso ed episodico - anche se illuminante - si va dal "Metodo delle scienze storico-sociali" di Max Weber, che uscì postumo nel 1922, al caposaldo riconosciuto in modo unanime dell'ermeneutica filosofica del secolo scorso, le due tappe di "Verità e Metodo" uscite nel 1960 e negli anni successivi dalla penna e dalla riflessione di Hans Georg Gadamer. Ma si passa per la filosofia della scienza di Imre Lakatos e il suo capolavoro del 1970, "La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica", per approdare perfino ad un "anarchismo metodologico" come quello teorizzato da Paul Feyerabend nel suo "Contro il metodo", che uscì nel 1975.
Non è certo un resoconto completo di quel che possa sorgere esaminando la storia culturale del secolo passato nei campi più disparati sotto la voce "metodo": ma questo piccolo elenco potrebbe indicare un breve retroterra che attornia i tre saggi di Giorgio Agamben che sono raccolti in questo suo ultimo volume, che hanno un precedente di riferimento che viene dalle scienze filosofiche e sociali come quello di Michel Foucault, che nel 1969 pubblicò il "L'archeologia del sapere e la riflessione sul linguaggio".
In 110 densissime pagine, Agamben parte dal saggio "Che cos'è un paradigma?", che fa incontrare e scontrare Platone con Kuhn e Foucault, passa al capitolo "Teoria delle segnature", che ispira il titolo complessivo riferendosi alla signatura rerum di Paracelso e di Jakob Böhme, e arriva nuovamente a Foucalt nell'ultimo saggio intitolato "Archeologia filosofica".
Ricchissimo di intelligenza delle cose, di spunti e di confronti, questo volume sul metodo si cala prontamente nel metodo per portarne alla luce gli elementi nascosti, quelli che divengono dannosi se non sono chiaramente presi in considerazione ed esaminati.
Difatti, a pensare cosa sia, almeno etimologicamente, il metodo, si vede che esso viene dal termine greco methodos, letteralmente "tragitto, percorso", nel senso di "via che porta oltre".
Ma se metà, "oltre", e hodos, "via, cammino", significano questo, nulla toglie che si possa pensare al termine "metodo" come al termine "metafisica" - l'altro grande caposaldo del pensiero occidentale: allora quel tragitto, è il passaggio che può portare "oltre la via", "oltre la natura" del metodo stesso, dunque al di là delle imposizioni, inevitabili ma non incoercibili.
Quanto questo possa esser vero in un ambito intrigante come quello della riflessione filosofica, è fuor di dubbio; quanto invece sia necessario e imprescindibile - e il libro si presta anche ad una lettura trasversale di questo tipo - per la letteratura e la teoria che la accompagna, è importante sottolineare, per comprendere l'aspetto stimolante della meditazione del pensatore.
Una scheda sul volume di Giorgio Agamben si trova a questa pagina dell'editore, che è Bollati Boringhieri.

domenica 4 maggio 2008

"La cosa più importante è adesso dimostrare che si tratta di un uomo"

Le parole di Rudolf Meyer, che è il difensore di Joseph Fritzl - l'austriaco che ha avuto sette figli dall'incesto con la figlia Elizabeth, tenuta segregata in cantina per quasi un quarto di secolo assieme alla crescente famiglia - suonano come una sorta di conferma di come la letteratura e la filosofia possano anticipare, forse comprendere, il Male.
A sentire queste parole viene da pensare ad un uso strumentale del concetto di "banalità del male", che è stato uno degli artifici interpretativi di Hannah Arendt per avvicinare e comprendere lo sterminio di massa degli Ebrei nella Seconda Guerra Mondiale e le torture sistematiche dentro i campi di concentramento - e per comprendere le reazioni a processo degli ufficiali che avevano perpetrato quel male.
Ma ancor più viene da pensare al caso Moosburger raccontato da Robert Musil nella prima parte de L'uomo senza qualità: non si comprende la ferocia con cui l'imputato accoltella le sue vittime, ma nemmeno quella che dimostra nei confronti di sé stesso durante gli interrogatori e le deposizioni - anzi pare che ve ne sia più in questi ultimi casi, che non durante gli omicidi.
Il romanziere indaga i pensieri del protagonista e quelli dell'opinione pubblica austriaca "imperial-regia" di Kakania, e quando torna a parlare di Moosburger descrivendo anche le reazioni di una amante del protagonista, Bonadea, pure in questa occasione mostra l'insensatezza del processo, la strampalata e tragica difesa di un'idea di colpevolezza fatta dall'imputato stesso per sé medesimo, l'inutilità del patibolo perchè inadeguato a colpire quel male.
Fritzl pare ancor più banale di Moosburger, meno cupamente fiero - tanto più crudele.
Eppure la letteratura e la filosofia riescono a dare il segno di come non sia - seguendo Goethe - il colore nero a tingere l'oscurità, quanto la mancanza di luce.

sabato 3 maggio 2008

L'Avvocato della lingua italiana

"Signor Presidente, Le parlo brevemente, soprattutto come superstite di quell’esiguo gruppo di accademici che negli anni postbellici, con l’animosa guida di Giacomo Devoto, vide restituita all’Accademia l’impresa del Vocabolario della lingua italiana, soppressa nel 1923, e ampliate la struttura e l’efficienza della secolare istituzione."
Con queste parole Giovanni Nencioni nel 2002 salutava Carlo Azeglio Ciampi in visita all'Accademia della Crusca: con garbo parlando di un figlio che gli sarebbe - com'è logico, ma in questo caso fortunatamente - sopravvissuto, vale a dire il Vocabolario della lingua italiana.
Adesso Giovanni Nencioni, che si è spento a 96 anni stamane, magari si occuperà del Vocabolario lavorando a progetti e schedature per una ulteriore "custodia" della lingua italiana, lui che era per formazione e studi, avvocato, e si era laureato con Piero Calamandrei studiando diritto processuale.
E difenderà ancora Manzoni e Verga, o Dante e Pirandello (suoi autori amati): quasi come l'altro Avvocato che l'Italia del Novecento ha avuto, Gianni Agnelli, avrebbe difeso la Fiat e avrebbe parlato, in un ultimo discorso, della Ferrari - la figlia che sarebbe sopravvissuta, quella più bisognosa di cure perchè oggetto prezioso fra i beni di famiglia.
Come le parole del Vocabolario, quelle che viaggiano prima e dopo di noi, ma alle quali lasciamo un segno per l'averle amate, baciate, masticate - o magari intraviste solo una volta nella vita, ombre perdute.

giovedì 1 maggio 2008

La menzogna e la soddisfazione del desiderio

Come fin dall'antichità vi sono state artes che cercavano di chiudere il limite di molti (forse, tutti) gli argomenti humaniores, e si è passati quindi dalle arti della parola a quelle della cucina fino a quelle della guerra e a quelle della bellezza ornata dal trucco, così i secoli a noi più vicini ci hanno lasciato nuove e ardite arti - perfino contro l'arte stessa, intesa come techne, modalità di raggiungere uno scopo in maniera ordinata e riproducibile.
Se la retorica è stata assieme alla guerra quella più affrontata, il barocco forse ha portato alle estreme conseguenze un piano logicamente ineccepibile che veniva dai Sofisti: chiudere e aprire il piano della menzogna, dedicare al "nulla contro la realtà" il valore del pieno di una realtà possibile - un mondo possibile, direbbero oggi i semiologi - come se ci si trovasse davanti ad hegeliani avant lettre che spiegano che Tutto ciò che è razionale è reale.
Eppure la menzogna, banalmente - non pretendo chissà quali profondità di pensiero - si impone nella strenuità della sua difesa, come altro possibile; se raggiunge - ovviamente con l'arte - livelli di grande coerenza architettonica, si impone come variante logica, costruzione del mondo. Ma quel mondo non è abitato da nessuno, se non dal desiderio.
Allora è il coinvolgimento nel desiderio il punto di valore e forza di una buona menzogna: nulla di cinico, nulla più di cattivo (nel senso di prigioniero di un modo di ragionare) nei confronti degli ignari - questi, se non sono scaltriti, rimangono impermeabili alla menzogna creativa: passa loro accanto, magari vive dentro di loro, ma solo come una verità spenta, immiserita, non reattiva.
Coinvolgere nel desiderio si può quando sia possibile scandagliare il potere del sogno: non tanto utopia, costruzione anche "politica"; ma soprattutto spiegamento di altre costruzioni che non escono dallo spazio dello spirito.
Questo sarebbe un tardivo e inefficace elogio della letterarietà della menzogna, ma vorrebbe arrivare anche a lambire un elogio dell'immaginazione mistica di cui parlava Henri Corbin, e toccare anche la creatività matematica citata spesso da Jean Dieudonné, e una teoria della metafora come "conoscenza orizzontale del mondo" che viene da Emanuele Tesauro e arriva fino ai modelli reticolari della conoscenza che adesso informano di sé (in vario modo), le "ontologie" di cui si nutre sempre più il Web 2.0 e il già annunciato 3.0, ancor più semantico, ancor più desiderabile e forse ancor più menzognero.

lunedì 28 aprile 2008

La mostra "Luce" di Pino Pedano a Milano

Pare una coincidenza, eppure questo blog è aperto da qualche giorno, e da poche settimane è stata aperta a Milano (nella chiesa di Santa Maria Annunciata) la mostra "Luce" dello scultore messinese Pino Pedano (è di Pettineo).
Il fatto è che Pedano non è uno di quegli scultori rimasti in Sicilia a modellare il legno: la sua intelligenza e la sua inventiva l'hanno portato già dagli anni '70 del secolo scorso in tutto il mondo. Se poi si aggiunge una installazione luminosa a dialogare con i volumi in legno delle dodici sculture, e si aggiunge pure che questa "scultura di luce" è l'ultima opera dello statunitense Dan Flavin, si capisce come il fatto che la mostra sia stata voluta anche da un teologo dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, non sia altro che un ulteriore tassello di eccezionalità e di importanza per l'occasione e i pensieri che vi sono dietro.
A guardare la Rete si trovano alcune belle recensioni: io segnalo solo l'articolo a questa pagina e con piacere il sito personale del maestro Pino Pedano.

domenica 27 aprile 2008

Riflessioni su "Opfer" di Rainer Maria Rilke

Nei Neue Gedichte ("Nuove Poesie") di Rainer Maria Rilke, quasi all'inizio della raccolta, si legge un componimento dal titolo Opfer, che in italiano vale "offerta" o "sacrificio". Sono tredici versi.

Opfer
O wie blüht mein Leib aus jader Ader
duftender, seitdem ich dich erkenn;
sieh, ich gehe schlanker und gerader,
und du wartest nur -: wer bist du du denn?

Sieh: ich fühle, wie ich mich entferne,
wie ich Altes, Blatt um Blatt, verlier.
Nur dein Lächeln steht wie ein lauter Sterne
über dir und bald auch über mir.

Alles was durch meine Kinderjahre
namenlos noch und wie Wasser glänzt,
will ich nach dir nennen am Altare,
der entzündet ist von deinen Haare
und mit deinen Brüsten leicht bekränzt.

Offerta
O, come fiorisce il corpo mio più aulente
da ogni vena, da quando io ti conobbi;
ecco, vedi: più agile e diritto io vado,
e tu soltanto aspetti - ma chi sei, dunque?

Ecco, vedi: quando mi allontano percepisco
come io perda, a foglia a foglia, quel che fu una volta.
Ma adesso il tuo sorriso splende più delle stelle
su di te, e anche su di me fra un poco ancora.

Tutto quel che senza nome alcuno dai miei anni
infantili splende ancora come l'acqua,
a te lo dedicherò sull'altare, col tuo nome,
l'altare che avvampa dentro la tua chioma
e ha corona leggera fra i tuoi seni.

Fa pensare ad una sensibilità intessuta di ori e verde di foglie, questo componimento - ma non vi è ancora nulla delle immagini estenuate di Klimt, ad esempio. Non rimane più la suggestione di Dante Gabriel Rossetti, ma nemmeno si può ravvisare il viaggio a ritroso di Des Esseintes - ancora non decade nulla.
Allora questo canto potrebbe essere dedicato all'amicizia? Forse, potremmo pensare ad un ultimo guizzo di Hölderlin rivissuto dal boemo Rilke - eppure viene un ricordo di Musil, di un brano dall'Uomo senza qualità:
"Ulrich non aveva mai potuto soffrire quel piano a coda sempre aperto che digrignava i denti, quell'idolo dal muso schiacciato e dalle gambe corte, quell'incrocio fra un bassotto e un mastino che dominava la vita dei suoi amici e persino i dipinti alle pareti e le linee scarne e affusolate dei mobili d'arte; anche il fatto che non avevano domestica ma soltanto una donna a mezzo servizio per cucinare e scopare rientrava nel quadro. Fuori delle finestre i vigneti salivano con gruppi di vecchi alberi e casette sbilenche verso i turgidi boschi, ma vicino tutto era spoglio, disorganico, isolato e corroso come accade dove le periferie delle grandi città si spingono dentro la campagna. Fra le scabre adiacenze e l'amabile paesaggio lontano, lo strumento tendeva il suo arco; lucido e nero, scagliava fuori di quelle pareti colonne infuocate di dolcezza ed eroismo che, ridotte a impalpabile cenere di suoni, poche centinaia di passi più in là cadevano al suolo senza fra l'altro raggiungere la collina di pinastri, con l'osteria a metà strada del bosco."
Qui la musica del pianoforte vale per gli anni di giovinezza della poesia di Rilke: solo quel che rimane può essere dedicato all'amata sull'altare dell'Amore - e questo ormai è poco, perchè "non giunge" a farsi sentire dalla società (l'osteria). La ragione è che non brilla più come l'acqua, e ha invece accumulato dentro di sé la cenere: è l'amata a far divampare l'altare, non certo il fuoco alimentato dai sacrifici che vi si pongono.

sabato 26 aprile 2008

Educare, Formare, Costruire

Uno dei saggi/conferenza del secondo dopoguerra di Martin Heidegger si intitola "Costruire, abitare, pensare" (l'anno è il 1951) - la tesi è quella che vi sia un rapporto ben più profondo, per l'uomo, che quello di costruire per abitare; quello cioè che le forme usate e prodotte dall'uomo per "abitare" siano anzitutto un riflesso di strutture di pensiero e di adattamento alla vita "sul" mondo e "nel" mondo, quindi dell'Essere-nel-mondo, che è uno dei temi fondanti della filosofia di Heidegger.
Col mio titolo non voglio affatto scimmiottare la terna sapiente del pensatore tedesco, né voglio cercare di proporre chissà quale novità: mi sono sentito stimolato da un metodo di analisi e riflessione che però viene proprio da Heidegger e prima di lui da una lunga e vivace tradizione italiana che fa capo a Giambattista Vico, e conduce poi a Nietzsche e ad un contemporaneo affascinante di Heidegger come Carl Schmidt - quella di riscoprire percorsi di pensiero attraverso la "storia delle parole", che è un connubio di etimologia, storia della lingua e archeologia del pensiero.
Allora, pensando il campo di significati della educazione (scolastica e non), saltano prontamente all'attenzione almeno tre termini.
Educare, che significa alla lettera "condurre fuori" rispetto ad uno spazio già dato - viene dal latino "ex-ducere": è la forma più primitiva (nel senso dell'evoluzione e del tempo dell'azione) del rapporto che lega un maestro ad un discepolo. Si educa qualcuno alle regole di comportamento, a quelle di sopravvivenza come a quelle della scrittura o del calcolo.
Eppure solo su questo si può cercare di formare una persona: si modella il carattere e il corpo con degli esercizi, con delle pratiche, si fortificano i risultati con delle abitudini e si favoriscono già delle tendenze a modellarsi da soli, secondo le proprie curiosità.
Ecco perchè l'ultimo concetto, quello di costruire - come fosse un'architettura - una persona, ha un valido rappresentante nel termine tedesco Bildung, che viene da Bild, l' "immagine". A cercare su un dizionario bilingue si vede la traduzione come "erudizione, cultura", edè una cosa che riguarda appunto il fatto di non essere grezzi - rudi, da cui appunto ex-rudire, e l'italiano erudizione. Ma il non essere grezzi, non appartenere al gregge di chi non si distingue perchè non ha immagine, è proprio il fine che si dovrebbe attendere quando ci si forma e ci si educa.

venerdì 25 aprile 2008

"Dentro la cornice" di Enrico de Pascale e Chiara Gatti

Mi è capitato fra le mani, dopo una breve discussione con un agente librario, il volumetto molto bello e utile dal titolo Dentro la cornice. Il sistema dell'arte ieri e oggi, curato da Enrico de Pascale e Chiara Gatti, che è edito da Bruno Mondadori Arte (costa € 7,50).
Pieno zeppo di immagini, di interviste sapienti e organizzato in sezioni chiare e efficaci sulla filosofia e la pratica artistica, il collezionismo, il valore delle gallerie e delle mostre, le tecniche di esposizione delle opere e una riflessione interessante sulle aste e sui prezzi che vi si raggiungono, questo volume di un centinaio di pagine, oltre che un utile strumento per studiare (a scuola e da soli), mi pare anche un modo fresco e divertente per far scendere l'Arte dalla Torre d'Avorio dove è salita, e tornare a sentirla - come giustamente dovrebbe essere - un prodotto del pensiero degli uomini. Quindi un modo per non aver timore di avvicinarsi a opere grandi e famose e celebrate o dirompenti e innovative, cariche di contraddizioni e di spirito - e infine anche per comprendere dove si trovano le fandonie e dove invece le perle.
Da queste parti il link verso la pagina della casa editrice sull'opera di De Pascale e Gatti.

giovedì 24 aprile 2008

Viaggiare

Aprire un blog con un titolo e un post impegnativi spesso significa bruciare tutte le cartucce subito, e non avere molto più da aggiungere in seguito - e magari sarà così anche in questo mio caso.
Il fatto è che questo pomeriggio, ascoltando la scrittrice Enza Buono su Fahrenheit, un programma pomeridiano di Rai Radio3, l'ho sentita esprimersi in maniera molto precisa e affascinante sul viaggio, sul ritorno a casa e su come si debba intendere lo sradicamento.
La signora Buono, che pur essendo nata in Sicilia si è trasferita in Puglia da bambina e abita ancora a Bari, ha pubblicato un romanzo "famigliare" (di cui ha parlato appunto nella trasmissione) e ha ricordato come non si possa tornare da turisti in Sicilia, se si è nati lì e ci si è allontanati per un certo periodo. Diceva "Non si hanno più parenti".
Mi è sembrata una frase forte, e l'ho compresa come l'affermazione di una donna che è rimasta sostanzialmente fuori dalla Sicilia per tutta la sua vita - e quindi che ha visto l'isola dal punto di osservazione interiore che è il ricordo della madre, le memorie comuni e anche i luoghi comuni, le immagini catturate dalle fotografie o dai film, ma non dagli occhi.
Io ho pensato però che in realtà, nessun viaggio è realmente utile, realmente pieno di senso: spesso viaggiare significa riempire con una nuova esperienza un periodo di "vacanza" - di vuoto, cioè - rispetto alle attività normali, che fanno il pieno. Allora le esperienze di viaggio, di qualche giorno, di settimane o mesi, presupponendo un ritorno, modellano solo una superficie.
Riguardando la "pelle", le persone e i paesaggi osservati si fissano dentro di noi come se fossero proiettate su uno schermo: ecco perchè fa più frutto, da questo punto di vista, chi come Emilio Salgari, che creava i suoi mondi asiatici e lontani per Sandokan utilizzando cartine geografiche e fantasia, cioè lo strumento della mente che ordina i particolari e ne estende le relazioni per ampliare l'orizzonte della conoscenza, viaggia anche con la mente.
Eppure la nostra cultura occidentale pare sia modellata sulla intemperante necessità di un viaggio, che fra l'altro si configura come un ritorno: è questo il nostos di Ulisse, un viaggio di ritorno verso casa, lento e difficoltoso.
A ben vedere però, quel viaggio, a parte la banalità della amplissima durata (che salta subito agli occhi e su cui si costruisce una vicenda affascinante), ha un motivo profondo e sottile che costruisce una vera filosofia del viaggio in Occidente, quella che spingerà gli esploratori del Rinascimento a conquistare il globo con le scoperte geografiche. Quel motivo è che per quanto lungo sia il viaggio e il ritorno, ogni volta a Ulisse si pone la prospettiva di non poter più tornare a casa.
Chi sa di poter tornare, usa il viaggio per riempire uno stacco, per riposare forse, dunque per una "vacanza", ancora una volta: ma Ulisse non sa se gli sarà consentito tornare. Lo spera, e questo riguarda però i sentimenti, e l'algia, il dolore che difatti associamo al suo nostos - ma non riguarda la ragione e il pensiero che organizza il presente per il futuro.
Se Ulisse avesse avuto certezza, sarebbe rimasto a Ogigia o con Circe, decidendo con calma se e quando tornare da Penelope; e ancor più fortemente, se fosse stato sicuro di restare, non sarebbe partito alla ricerca delle Esperidi, o del Purgatorio, come inventa splendidamente e genialmente Dante nella Commedia.
Per questo stesso motivo, Kostantinos Kavafis scrive nella sua Ulisse, "Fai voti che ti sia lunga la via", e augura al moderno inquieto viaggiatore di non disperare se il viaggio si prolunga oltre ogni limite dettato dal "diporto" - in ogni viaggio fatto senza speranza, si assaporano odori e sapori che finalmente entrano dentro il corpo e non si fermano sul limite che separa dentro e fuori, la pelle.
Ma quel viaggio ha bisogno di assoluto, ed è raro trovarlo.